ABITARE IL PRESENTE: IL NOSTRO KAYROS
Nell’augurarvi un nuovo anno ricco di soddisfazioni personali
e professionali, desidero condividere con voi qualche riflessione almeno per
iscritto, dal momento che è sempre più difficile per me potervi incontrare
tutti personalmente.
Vorrei, innanzitutto, riportare qualche riga di una
precedente “Lettera agli educatori di Kayròs” che risale al 2009. Trovo che
queste idee di fondo, allora espresse, rimangano ancora attuali:
-
Un’idea di partenza: il progetto Kayròs, come ogni progetto,
non nasce solo da noi, ma esiste prima di noi; è qualcosa che emerge dalla
vita, qualcosa che in qualche modo “si rivela”, attraverso le persone e le
situazioni che via via ne costituiscono e ne scandiscono le tappe. Occorre,
perciò, sempre fare memoria, mettersi in ascolto della storia che ci ha
preceduto.
-
Una consapevolezza: il progetto Kayròs, come ogni progetto,
nasce da un’assenza e da una speranza. E’ la mancanza che muove i desideri! Se
siamo qui – come ospiti o come operatori – è perché qui cerchiamo qualcosa che
soddisfi il nostro desiderio di bene. Siamo tutti alla ricerca di una felicità
possibile che, intuiamo, si colloca dentro un contesto di alto profilo
relazionale. Il progetto Kayròs non può prescindere, perciò, dalle persone che
lo incarnano e dal buono o cattivo rapporto che si genera tra noi.
-
Un sogno: il progetto Kayròs vuole diventare un “momento favorevole”,
un’occasione opportuna di crescita, di maturazione per tutti, minori ed adulti
insieme. Per una buona maturazione progettuale e personale è opportuno imparare
attraverso il fare, una sorta di apprendistato educativo continuo. Ciò non
significa spingersi solo verso un empirismo pericoloso, isolato dalla teoria. La
parola greca “teoria” significa “mostrare” qualcuno o qualcosa. Si parte dal
“guardare come si fa” e poi, piano piano, si prova, si sperimenta, si realizza
una parte del progetto. Non bisogna avere paura dell’attesa, non bisogna farsi
prendere dall’ansia del risultato atteso. Così ci sarà dato di realizzare
davvero almeno qualcuno dei nostri sogni…
La
storia di Kayròs è segnata, dunque, non tanto dai progetti realizzati (alcuni
con buon esito, altri meno), quanto dalle PERSONE che ne hanno fatto e
ne fanno parte. Quali persone?
Innanzitutto
le persone accolte in comunità: i
ragazzi.
Sono
più di duecento quelli che hanno fatto la storia di Kayròs: da quelli che
abbiamo incontrato per poche ore a quelli che abitano ancora con noi dopo molti
anni.
Sono
loro i protagonisti della “nostra” storia associativa, più ancora di chi le ha
dato avvio (i soci fondatori) e di chi tuttora ha ruoli e compiti direttivi.
Nessun collaboratore adulto se la prenda per questa mia affermazione: non ci
saremmo mai incontrati sul piano personale e professionale se non ci fossero
stati e non ci fossero questi ragazzi.
A
loro dobbiamo molto: la possibilità di lavorare in questo campo pedagogico così
difficile, ma anche così affascinante; la possibilità di maturare come
professionisti e più ancora come persone; la possibilità di osare laddove oggi
pochi amano rischiare, perché il compito educativo è sempre più una sfida che
non permette di rallentare il passo del tuo sapere e che impone cambiamenti
atti a formare un umanesimo creativo, bello, resistente alle fragilità del
nostro tempo.
Se
davvero i ragazzi ospiti delle nostre comunità sono i protagonisti del nostro
operare, ne va che i progetti ed i percorsi educativi ideati debbano
necessariamente essere “per loro e con loro”.
Il
rischio è sempre quello di pensare ed attuare progetti e regolamenti a priori,
scanditi più dalle nostre competenze tecniche e dai nostri schemi rigidi
acquisiti nel tempo che da un reale ascolto dei ragazzi presenti in comunità.
Nell’ascolto
attento, non possiamo ignorare il loro dolore che si esprime in tante forme; i
nostri, per lo più, non sono ragazzi malati mentali o psicotici, non sono
tossicodipendenti o delinquenti anche se, a tratti, presentano comportamenti
che li fanno affrettatamente giudicare tali.
I
nostri sono ragazzi sofferenti, a crescita bloccata, perché vedono
spegnersi la speranza di potere realizzare nel futuro i loro sogni, la loro
vocazione, il loro talento: non riescono a nascere come soggetti sociali e
hanno una tremenda paura che il loro futuro si allontani e rischi di
morire.
Non
possiamo davvero ignorare questa lettura della realtà. Così scrive Gustavo
Pietropolli Charmet: “E’ necessario aiutare i ragazzi a sperare
perché, per un giovane, non riuscire a sperare significa essere dis-perato e
avere la certezza che non esista più il futuro”.
Questo
è il compito educativo più urgente; non tanto e solo il “contenimento” in
comunità e l’eterna sfida sui regolamenti, quanto la capacità di generare
speranza.
E’
compito difficile perché la realtà non aiuta certo questi ragazzi e noi ad
avere speranza; eppure, sono convinto che la vera sfida educativa oggi si gioca
su questo terreno.
Cosa
significa “generare speranza”?
Detto
in altre parole, come si aiuta un adolescente ad aprirsi alla dimensione della
felicità?
Partecipando
alla cena di Natale nelle nostre comunità di Milano, ho respirato una sensazione
di maggiore serenità rispetto all’anno prima; mi è parso di leggere nei volti
sorridenti dei ragazzi ospiti un certo ottimismo. Sono tornato a casa contento.
Immagino quanti sforzi educativi quotidiani dietro quei sorrisi. E’ perché
tutto funziona bene e perché ogni ragazzo vive in assenza di problemi? E’
perché ogni ospite sta già realizzando compiutamente il proprio progetto
scolastico-lavorativo?
Non
credo soltanto questo, perché l’istanza della felicità oggi non è certo
garantita dalla società e dalle istituzioni; anche i nostri giovani sanno che
il futuro non è il luogo del progetto, ma è il luogo dell’imprevisto e
dell’improbabile, spesso del vuoto.
Dunque,
cosa può far nascere il sorriso nei nostri ragazzi?
E’ l’essere
valorizzati, stimati in quanto persone di pari dignità a “generare
speranza”, al di là di quello che un ragazzo è riuscito concretamente a
realizzare per il suo futuro. E’ l’essere ascoltato ed apprezzato come
persona, come soggetto unico, a generare sorrisi ed apertura alla felicità.
Non
si tratta di illudere i nostri adolescenti con progetti improbabili, né di far
loro abdicare a ipotesi di futuro; si tratta, piuttosto, di “abitare con
loro il presente”, perché il presente sia già luogo di valore e di senso.
Solo aiutando i nostri ragazzi ad abitare il presente, a governare la
contingenza, generiamo in loro una possibilità concreta di futuro.
Un
adolescente frustrato ed arrabbiato perché non valorizzato nel presente,
difficilmente potrà costruire un futuro felice. In assenza di lavoro a 18 anni
sembra che il mondo crolli: senza disconoscere la situazione di gravità che
specialmente un minore straniero non accompagnato vive, tuttavia è fondamentale
non lasciare che un ragazzo si abbandoni a derive depressive. E’ importante aiutarlo
a capire “cosa posso fare oggi”, perché il presente non diventi solo il
tempo di un’attesa inutile e vuota, ma torni ad essere considerato un KAYROS,
un tempo opportuno per costruire comunque qualcosa di importante.
Sento
questa riflessione doverosa soprattutto quando penso ai nostri sempre più numerosi
ragazzi maggiorenni senza lavoro e apparentemente senza
prospettive; è triste vederli dis-perati, è frustrante anche per me vederli
abbandonarsi a consumi facili per un po’ di felicità, con il rischio di morire
di piacere.
E’
possibile generare ancora in loro speranza se incominciamo a valorizzare il
loro presente come un tempo di impegno, di costruzione di sé e non come
tempo vuoto, di logorante attesa.
Al
centro del nostro pensare pedagogico va rimessa la parola “FORMAZIONE”.
Intendo
una formazione al sapere che incentivi l’intelligenza creativa dei
nostri ragazzi e non semplicemente una formazione che prepari tecnicamente a
svolgere un lavoro. Se il lavoro non c’è o non c’è ancora è inutile incrementare
illusioni con corsi professionalizzanti di ogni tipo proposti più per far
passare il tempo che per dare consistenza ad una reale vocazione.
Preferisco
pensare ad una formazione integrale della persona: un ragazzo può
ritrovare valore quando si sente all’altezza dei suoi compiti umani.
E’
decisivo, secondo me, oggi sviluppare la dimensione gratuita del sapere,
la curiosità, perché non ci si limiti a trasmettere solo una mentalità
esecutiva (“Apprendo solo ciò che immediatamente mi serve”). La formazione non
è soltanto una trasmissione di tecniche, di strumenti per il “fare”.
I
nostri adolescenti sono poveri culturalmente, non vivono la dimensione
socio-politica, spesso ignorano la dimensione religiosa; anche noi educatori,
spesso, abbiamo sottovalutato questo tipo di formazione, nella presunzione che
per i nostri ragazzi è già tanto riuscire a trasmettere una formazione
tecnico-professionale che li abiliti ad un lavoro.
Mi
sono accorto che nel nostro modo di educare c’è la tendenza a far prevalere
la logica del “fare” su quella dell’”agire”. Qual è la differenza tra
questi due verbi?
Il
FARE esige una competenza: punto e basta. Il fare è diventare abili
nell’eseguire qualcosa che produca un oggetto. Anassagora, antico filosofo
greco, già diceva che “l’uomo è
intelligente perché ha le mani”. Non implica alcuna responsabilità del
soggetto; anzi, il ritmo ripetitivo del fare ci espropria sempre più della
nostra soggettività.
Il rischio
di una formazione secondo la logica del fare è anche per noi educatori
quello di fare tante cose, di ripetere e moltiplicare prestazioni ma senza
sapere perché (a volte senza sapere per chi).
L’AGIRE
implica, invece, una soggettività, un compito, una responsabilità consapevole;
non basta seguire il protocollo, stare alle regole produttive, ma occorre avere
chiare le finalità per cui compi quell’azione e non un’altra. Anche un
educatore corre il rischio di essere solo un buon esecutore facendo tante cose,
ma di non svolgere un’”azione” veramente educativa.
La prima
necessaria formazione in comunità che i ragazzi apprendono è quella che
osservano nel nostro “fare” o “agire”: se osservandoci, vedranno in noi solo
persone che svolgono un lavoro in maniera distaccata nella logica del “fare”,
capiranno che nella vita per stare bene occorre solo fare un lavoro per lo
stipendio e senza spendersi oltre (allora tutti i lavori vanno bene, purchè
producano). Se, invece, osservandoci, i nostri ragazzi percepiranno persone che
agiscono con intenzionalità, che ci mettono la faccia e credono in ciò che
fanno, che danno senso e valore al loro impegno lavorativo, allora nel tempo
capiranno che per stare al mondo bisogna crescere nella consapevolezza, nella
responsabilità, nella capacità di rapporto con gli altri, nel riferimento a
valori etici, nella ricerca di senso.
Se
non aiutiamo i ragazzi a dare significato al presente di ciò che vivono –
fossero anche le azioni più banali – il nostro “fare educativo” non basterà ad
estinguere la dimensione del vuoto che avanza. Non basterà “fare comunità”, ma
occorrerà “essere comunità” ove ogni ragazzo accolto venga valorizzato
nella sua soggettività, nelle sue qualità positive e venga messo in condizione
di comprendere il senso del suo abitare la comunità pur nell’assenza di
un lavoro e in un regime di provvisorietà.
In
una frase: occorre formare l’uomo.
Per
formare l’uomo dobbiamo ridare centralità all’evento sorgivo che è il pensare,
l’avere coscienza di ciò che si vive. Un pensiero critico, capace cioè
di non consegnarsi alle logiche del gossip e dell’opinione comune dominante, ma
un pensiero educato a riflettere e a capire la realtà mediante un serio
discernimento personale.
“Tutti gli uomini per natura hanno sete di
conoscenza”, scriveva Aristotele: non possiamo esimerci da questo compito
educativo. Come?
Se
la scuola rimane un percorso giudicato ormai improponibile per molti dei nostri
ragazzi, occorre che la comunità stessa diventi “scuola” che abiliti non
solo a competenze pratiche (come si fa da mangiare, come si lavano i vestiti,
come si tiene pulita la stanza,….), ma insegni una visione del mondo diversa da
quella che ha costretto il ragazzo ad entrare in comunità.
Una
visione del mondo che non dovrà essere necessariamente quella dell’educatore,
ma che l’adolescente si sforzerà di costruire attraverso le esperienze di
conoscenza che saremo riusciti a stimolare. Ecco perché vi chiedo di valutare,
in una verifica interna alle equipes, quante e quali esperienze formative
siamo riusciti a favorire all’interno del percorso comunitario.
Anche
una gita in montagna può essere altamente formativa, una vera e propria scuola
di vita se non risponderà solo al bisogno di far qualcosa per passare il tempo,
ma intenzionalmente nella mente degli educatori sarà espressione di valori e di
senso condivisi.
Così
ritengo possa essere importante in comunità guardare e commentare insieme il
telegiornale, introdurre qualche quotidiano da lasciare alla lettura libera dei
ragazzi, visitare qualche mostra o museo interessanti, far vivere esperienze
nuove (una serata a teatro, la visione di un film particolare al cinema,..)
anche se non immediatamente gratificanti.
Lascio
a voi educatori di trovare le modalità più opportune e di escogitare, con la
vostra creatività educativa, come aiutare i nostri ragazzi a pensare.
Per
i maggiorenni in particolare e per tutti i ragazzi che ritenete idonei, sto
pensando ad una serie di serate a tema con testimoni privilegiati, a
cominciare dall’argomento socio-politico così attuale anche per chi sarà
chiamato a votare alle prossime elezioni. Tema esagerato per i nostri ragazzi?
Valorizzarli
significa credere nelle loro capacità culturali, adattando concetti e parole,
perché risvegliare speranza e futuro è possibile ancora, non senza una
formazione integrale della persona e non senza il nostro coerente impegno e
stimolo educativo.
La
storia di Kayròs è segnata dai ragazzi delle comunità, ma anche dagli educatori, dai volontari e da tutti gli operatori
che lavorano all’interno dell’Associazione.
Vale
per tutti noi adulti la stessa riflessione che ho proposto nelle pagine
precedenti. Per generare speranza nei ragazzi, dobbiamo vivere e ritrovare
dentro ognuno di noi i motivi profondi che ci fanno ancora sperare e ci
spingono ad alimentare ipotesi di futuro possibile per i nostri adolescenti.
Non
è facile neanche per noi, di fronte ad una crisi che non sembra indietreggiare
e che non è solo una crisi economica, ma soprattutto culturale e motivazionale.
Per
essere educatori e volontari oggi ci vuole proprio – è il caso di dirlo – una
grande fede e un profondo coraggio. E’ più che mai indispensabile, perciò,
condividere con più partecipazione un pensiero pedagogico comune, all’interno
di spazi e di tempi di FORMAZIONE.
Proprio
perché il nostro operare non sia meramente un “fare senza senso”, ma diventi “azione
consapevole”, occorre ridare centralità ai momenti formativi, non intesi
semplicemente come acquisizione di competenze e di strumenti tecnici. Formarsi
a lavorare con il PEP (Progetto Educativo Personalizzato) non significa sapere
scrivere un pezzo di carta al computer con frasi e parole tecnicamente
appropriate. Significa per me, innanzitutto, avere chiaro in mente da dove
viene e dove va quel ragazzo, attraverso quali tappe sta maturando una visione
della vita e del mondo che gli è attorno. Allora la formazione non è tanto
acquisizione di conoscenze fisse e schematiche di competenze professionali,
quanto un percorso da fare insieme per la costruzione di pensieri
organizzati e per la teorizzazione di esperienze che conducano l’adolescente ad
un reale cambiamento. Formazione, per me, è costruzione di un senso
pedagogico comune e confronto sulle nostre visioni del mondo e sulle nostre
personali visioni educative, lavorando più sui processi che generano
cambiamento che sul fare tecnico-operativo-organizzativo.
Non
è superfluo dirci a quale visione della realtà ciascuno di noi appartiene e
confrontarci su quale senso e visione della vita vogliamo consegnare ai
nostri ragazzi.
Il
rapporto educativo che stabiliamo con i ragazzi delle comunità è sempre un
evento che si dà nel qui ed ora, in un tempo puntuale (un Kayròs appunto),
all’interno di un preciso momento storico, culturale, sociale, economico;
l’incontro con l’altro, come sostiene E. Stein, non avviene a livello astratto,
sulla base di categorie teoriche immutabili nel tempo, ma concretamente
guardandolo negli occhi e guardando sempre la situazione
storico-sociale-ambientale da cui proviene.
L’essere
umano è sempre collocato, perché non esiste un essere umano tipico
destoricizzato.
Cosa
significa educare oggi quel ragazzo, con quella storia, con quelle caratteristiche
particolari e uniche, come unico ed irripetibile è ogni uomo? Cosa significa
educarlo in questa comunità, in questo gruppo, in questo sistema
sociale-economico-politico? Quale concezione di uomo e di vita intendiamo
comunicare e consegnare in questo momento storico di particolare crisi di tutto
il sistema? Quale coscienza cerchiamo di risvegliare nei nostri ragazzi?
A
tutte queste ed altre domande fondamentali occorre provare a rispondere insieme
attraverso momenti di confronto e di formazione, perché il nostro non sia un
fare educativo che non lasci traccia e che – peggio – confermi le visioni
catastrofiche e negative della vita che già molti dei nostri ragazzi hanno
sviluppato in questi anni.
La
formazione non è mai qualcosa che possa ritenersi conclusa una volta raggiunti
determinati traguardi, ma deve essere formazione sempre in fieri, in
divenire, permanente che si rispecchia nel divenire esistenziale di ogni
persona.
Ecco
perché auspico che nella nostra vita associativa si torni a mettere al centro
la formazione così intesa, senza nulla togliere a quella formazione tecnica pur
necessaria: cosa serve, per esempio, apprendere tutte le prassi giuridiche in
caso di fuga di un ragazzo in misura cautelare o come si compila il diario di
bordo se ignori il senso di ciò che fai e per chi lo fai?
Le
famose “linee pedagogiche di Kayròs” in cosa realmente consistono? Altre parole
circolanti in Kayròs come “Appartenenza” a quali valori si ispirano, oltre la
retorica del linguaggio associativo?
Forse
è arrivato il momento di confrontarci seriamente su questi punti.
· Giunto
al termine di questa riflessione, auguro a tutti voi un buon cammino lungo
questo anno decisivo per l’Associazione. Ricordiamoci, come dice Kant, che “l’educazione è un compito eterno che
conserva e sviluppa ciò che di umano abita l’umanità”.
Sia
questo il nostro compito più vero.
don
Claudio
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